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La rivincita del Paese che dice “sì”

Buone pratiche: un esempio di comunità di condominio e di quartiere

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Sono passati ormai tre giorni dalla manifestazione violenta di venerdì a Milano, ma contati i danni, puliti i vetri, cancellate le scritte, coperti i negozi distrutti e rimosse le auto bruciate, ci si rende conto che sta accadendo qualcosa di più: quell’ondata di distruzione e di negatività è stata il detonatore di una reazione d’orgoglio.

L’abbiamo vista nella gente che è scesa per la strada a pulire, in quella che ieri manifestava in positivo, nei discorsi che si ascoltano per la strada e perfino nella stragrande maggioranza dei commenti sui social network. Non è solo una reazione dei milanesi, ma di molti italiani che sentono crescere la stanchezza verso l’idea che si debba sempre dire no, che l’unico pensiero lecito e corretto sia sostenere che ogni tentativo di cambiamento sia sbagliato, negativo, da rifiutare. Sembra emergere finalmente quell’orgoglio che impedisce, per amor proprio e per amore dei propri figli oltre che del proprio Paese, di denigrare ogni cosa e di autodenigrarci. Ma saremo pure capaci di fare qualcosa, ma ci sarà pure un motivo per cui continuano a venire da tutto il mondo a visitarci, per cui abbiamo eccellenze nella manifattura, nell’artigianato, nel lusso?

Viviamo da troppo tempo dentro la crisi, sei anni sono un periodo lunghissimo e quasi senza precedenti che ha fiaccato gli animi e la voglia di reagire, che ha paralizzato le iniziative e gli slanci. E su questo è cresciuta la pianta del pessimismo, dello scetticismo continuo e assoluto.

Ma viviamo anche da troppo tempo nella dittatura della critica ossessiva, che quando non lascia alcuno spazio alla speranza diventa autolesionismo.

Poi c’è un momento in cui ci si rende conto, come svegliandosi da un incubo, che dipende anche da noi, da quello che saremo capaci di fare, dalla quantità di innovazione e cambiamento che riusciremo a mettere in circolo.

Ci rendiamo conto che non possiamo assistere immobili alla partenza dei figli e dei nipoti, che se siamo ragazzi non possiamo avere solo la prospettiva di emigrare. E pensare che di campanelli d’allarme ne suona uno ogni giorno: quando scopriamo che lo scorso anno se ne sono andati all’estero 2400 medici, esattamente la metà di quelli che si sono specializzati, come possiamo pensare che abbia senso continuare a fare le stesse cose? Non solo la partenza di questi giovani è uno sperpero notevole di soldi pubblici (avete idea di quanto possa costare alla collettività formare un solo medico, dalla scuola elementare alla specializzazione, per poi regalarlo a un altro Paese che beneficia della sua preparazione? Stime approssimative sostengono oltre mezzo milione di euro) ma è anche la dimostrazione che il sistema sanitario non funziona, che incapace di riformarsi e fare tagli sceglie la strada più semplice, lasciare fuori le nuove generazioni dei medici. Invece di tagliare sprechi ed errori si taglia il futuro.

Ci si deve rendere conto che il futuro non è già scritto e non è qualcosa di predestinato.

Il futuro è tutto da costruire, potrà essere anche peggiore ma ci sono due certezze: nulla resta immutato, il presente non è per sempre, e molto dipenderà da noi, dal nostro impegno, dalla nostra forza di non arrenderci, dalla nostra creatività e dal nostro coraggio.

Lo abbiamo già fatto tante volte, risollevandoci dalle macerie esattamente settant’anni fa alla fine della guerra, o trovando la forza di uscire dalla stagione del terrorismo e delle stragi 35 anni fa.

Credo che il Paese sia a un nuovo punto di svolta, non per forza legato alla politica, e si ha la sensazione che molti cittadini si rendano conto che non possono più stare a guardare il declino, a farsi ipnotizzare dalla spirale della negatività, dall’avvitarsi di un Paese che resta pieno di risorse. Sono quei ragazzi che aprono nuove attività, che scommettono sulla loro fantasia, che continuano a studiare nonostante gli si dica che non serve a nulla. Sono quelli che si tappano le orecchie quando gli ripetono che «non si può fare», quelli che vedono uno spazio dove le convenzioni e gli occhiali del passato negano che esista.

Sono quelle donne e quegli uomini di ogni età che a Milano si sono rimboccati le maniche e che ieri hanno camminato a lungo per dire che non vogliono buttare via la loro città e l’occasione rappresentata da Expo.

Ma sono perfino quei turisti che hanno affollato Torino in questo fine settimana con un record storico di presenze, a dimostrazione che fare investimenti anche in tempo di crisi e avere vista lunga paga sempre, come dimostra il successo strepitoso del nuovo Museo Egizio. E poi c’erano la Sindone, l’autoritratto di Leonardo, il Museo del Cinema, ma soprattutto un sistema città che ha creduto nella scommessa di Expo e ci si è legato. Le strade piene di turisti non significano che la crisi sia finita ma certo aiutano a rialzare la testa e soprattutto segnalano una voglia di ricominciare. Ai cultori del No, vorrei segnalare che se questo accade è anche merito della tanto detestata alta velocità che porta in tre quarti d’ora a Milano e che sta aiutando Torino ad uscire dalla sua marginalità geografica.

Sono segnali, che certamente verranno gelati da una miriade di cattive notizie in cui siamo campioni, ma se saremo capaci di tenerceli stretti e di coltivarli, chissà che non diventino una pianta robusta, capace di dare i suoi frutti. E allora forse scopriremo che anche quei ragazzi incappucciati che hanno distrutto senza sosta hanno ottenuto un risultato, ma è il contrario di quello che volevano: hanno svegliato la nostra voglia di vivere, di non arrenderci.

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